L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

Vade retro ibrido! O forse no?

Chi non ha mai sentito parlare del Clinton, dell'Uva fragola o del vino Fragolino? Per molti di noi, soprattutto se residenti nel Nord-Italia, l'aroma particolare dell'Uva americana evoca ricordi di fine estate, sapori di orti e giardini famigliari, dove non ne mancava mai qualche vite allevata a pergola, a formare lussureggianti topie, generose di ombra nel sole estivo. Tutti sanno che queste viti, resistenti a molti parassiti e la cui origine è in qualche modo collegata al Nuovo Mondo, in Italia non possono essere utilizzate per la produzione di vino commerciale, poiché una legge che risale ai primi decenni del 1900 ne vieta espressamente l'uso in nome della tutela della qualità.
La regolamentazione dell' Unione Europea in materia vietava anch'essa la coltura di varietà da vino non derivate esclusivamente dalla Vitis
vinifera, ammettendo però l'impiego di alcuni ibridi tra questa e le specie americane (ad esempio del Baco 22 A per la produzione dell'Armagnac francese).
Con le norme OCM approvate nel maggio 1999, tuttavia, anche le varietà che provengono da incroci di altre specie del genere Vitis diverse dalla Vitis vinifera (con l'eccezione di qualcuno tra i più vecchi ottenimenti) possono essere classificate e dunque ammesse alla coltura, purché (almeno per ora) non vengano utilizzate per l'ottenimento di v.q.p.r.d.. Ciò rappresenta senza dubbio un'inversione di tendenza, le cui motivazioni possono forse essere capite tracciando brevemente la storia dei vitigni derivati da incroci interspecifici, i cosiddetti ibridi.
Questi hanno cominciato ad essere ottenuti ed utilizzati dopo la seconda metà del 1800 con la diffusione in Europa dei parassiti di origine nord-americana nei confronti dei quali, in misura più o meno estesa, mostravano tolleranza. Erano rustici e particolarmente fertili, ma conferivano il ben noto sapore volpino al vino, che risultava inoltre scarsamente alcolico, poco stabile nel colore, talora più ricco di alcol metilico. I primi ad essere utilizzati, i peggiori dal punto di vista della qualità, erano sovente ibridi naturali, derivati cioè da incroci spontanei: il Clinton da Vitis Labrusca x Vitis vinifera, l'Uva fragola che tutti conoscono, o Isabella, da un semenzale dello stesso incrocio allevato e propagato da Isabelle Gibbs.
A ciò seguì il lavoro di numerosi ibridatori soprattutto francesi, come Seibel, Seyve-Villard, Couderc, Baco, che utilizzando varie specie resistenti oltre alla vite europea moltiplicarono i loro sforzi in un Paese, quale la Francia, colpito per primo e assai duramente dall'arrivo dei parassiti d'oltreoceano. Nel 1925 il Catalogo di Seibel comprendeva ben 1086 varietà, per la maggior parte ibridi interspecifici. Mentre in Francia la coltura degli ibridi si espanse fino 1950, pur non interessando ovviamente le produzioni di qualità, molti altri Paesi europei, tra cui la Germania, li vietarono prontamente.
Ma è proprio in Germania che programmi sperimentali di incrocio iniziati alcuni decenni or sono hanno portato più recentemente all'ottenimento di cultivar ad uva bianca e nera (Orion, Phoenix, Regent, ecc.) che, sufficientemente se pur non totalmente tolleranti nei confronti di molte malattie fungine, paiono non conferire al vino i difetti organolettici degli ibridi loro antenati.
I vantaggi agronomici ed ecologici che derivano dal loro impiego sono alla base della propaganda in favore di tali nuovi ottenimenti, soprattutto nelle aree che per ragioni climatiche si trovano al limite della coltura della vite.I tedeschi hanno dunque vinto in sede UE la battaglia per la difesa e la commercializzazione dei loro ibridi, anche se non così brevi sembrano essere, al momento, i tempi per una loro diffusione su più larga scala.