L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

Alla ricerca della vite selvatica europea

A che cosa vi fanno pensare le parole "vite selvatica"? Probabilmente ad un insieme di germogli che, malgrado l'attenzione del viticoltore, si sviluppano in primavera dal portinnesto (il "selvatico", appunto) ai piedi di una vite cercando di avere su di essa il sopravvento, oppure a intrecci lussureggianti di tralci (si tratta sempre di portinnesti), che sui bordi delle strade del vino testimoniano la presenza di vigneti ormai scomparsi. I portinnesti sono dunque chiamati "selvatici" perché, derivati da viti spontanee generalmente originarie del Nord-America (la Vitis Berlandieri, la Vitis riparia, ecc.), sono stati portati in coltura soltanto da poco più di un secolo e non per produrre uva direttamente.
Ma forse non a tutti è noto che anche la vite europea (Vitis vinifera L.), accanto alla forma sativa domesticata qualche migliaio d'anni fa, ha nella vite vinifera silvestris (o sylvestris come alcuni la indicano) una sottospecie che, sfuggita all'agricoltura, è rimasta libera di arrampicarsi su alberi o altri sostegni, popolando le zone boschive d'Asia ed Europa. Ai giorni nostri, questa forma spontanea della vite da vino per eccellenza è ancora presente? Dove si trova? Quali sono le sue caratteristiche? Quali le ragioni per la sua ricerca e lo studio?
La vite selvatica europea è stata segnalata in tempi più o meno recenti in tutte le aree temperate d'Europa, dalla Spagna alla Bulgaria, ma la sua diffusione è in progressiva e rapida contrazione per via dell'antropizzazione sempre più intensa del territorio e della conseguente distruzione sia di esemplari che del loro habitat.
Ultimamente la si può trovare confinata, ad esempio, in alcune isole fluviali o lungo le sponde dei fiumi (quando non interessati da opere di bonifica, arginamento o regolamentazione delle acque), o ancora nelle zone boschive integre e lontano dai centri abitati. Occorre forse a tal proposito distinguere tra quelli che sono gli esemplari realmente selvatici, ovvero mai soggetti a coltura, da quelli derivati da piante coltivate, seppure in tempi remoti, e quindi in definitiva "inselvatichiti". In Italia, con un lavoro condotto una quindicina d'anni fa dall'Università di Milano, sono stati censiti, descritti e recuperati in varie regioni numerosi esemplari di Vitis vinifera silvestris, soprattutto della parte centrale della Penisola.
Una delle principali caratteristiche botaniche della vite selvatica è la dioicia, ovvero la coesistenza di piante con fiori maschili (ad ovario abortito) e di piante a fiori femminili, dove gli stami non sono funzionali: gli esemplari ermafroditi sono rari, stimati nell'ordine del 5% circa della popolazione, anche se proprio questi sono quelli selezionati nel corso della domesticazione dai primi viticoltori, che volevano evitare di allevare piante improduttive come quelle maschili. Le viti selvatiche, inoltre, hanno foglie e grappoli piccoli, spargoli, bacche con buccia bianco-ambrata o nero-violacea e vinaccioli normalmente più piccoli e tondeggianti di quelli della vite coltivata.
L'importanza strategica di recuperare e conservare gli esemplari di vite selvatica dipende ancora una volta dalla necessità di reperire, difendere dalla scomparsa e magari utilizzare del materiale genetico estremamente diversificato e di rilevante interesse non soltanto per via di una spiccata rusticità (intesa come tolleranza nei confronti di parassiti e di negativi fattori ambientali), ma anche per meglio conoscere e interpretare il contributo delle forme di vite selvatica all'evoluzione e affermazione dei vitigni dei nostri giorni. Un lavoro dunque non squisitamente applicativo, ma d'indubbio valore scientifico e anche piuttosto appassionante: chi ha voglia di percorrere i luoghi più appartati e solitari nella ricerca di questa schiva cugina del Barbera ce lo faccia sapere!