L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

La preziosa diversità dei "vecchi" vitigni

A tutti è noto il concetto di biodiversità, anche se non tutti, credo, hanno la precisa coscienza che la diversità biologica vada considerata un valore da custodire, salvaguardare e sviluppare. Mi ha colpito la riflessione secondo la quale dei tre tipi di risorse su cui la specie umana può contare per il proprio progresso, ovvero quella materiale, quella culturale e quella biologica, è proprio quest'ultima ad essere la meno conosciuta e di gran lunga la più sottovalutata. Per di più, è quella soggetta ad una rapidissima erosione: un'agricoltura che utilizzava migliaia di specie per il sostentamento di pochi milioni d'uomini, si è trasformata nel volgere di qualche millennio in una tecnica evoluta, che nutre con poco più di 150 specie qualche miliardo di persone.
Se guardiamo alla coltura della vite le cose non vanno meglio: in Italia sono coltivati circa 400 vitigni, ma solo 20 di essi interessano ben il 60% della superficie vitata. Sappiamo invece che prima dell'invasione fillosserica di fine Ottocento erano state elencate numerose decine, e talora centinaia di cultivar di vite per ogni provincia del Regno, cosa che con tutta probabilità portava a qualche migliaio di vitigni il patrimonio di diversità viticola del nostro Paese. Le ragioni di quest'amplissima variabilità genetica erano in parte dovute al variegato susseguirsi nella nostra terra d'ambienti colturali differenti per clima, suolo ed orografia; ma mi piace anche pensare che la nostra penisola abbia costituito un ponte privilegiato per il passaggio di popoli e di geni delle più svariate varietà coltivate in viaggio dal Mediterraneo Orientale, culla dell'agricoltura, verso il Centro Europa.
Che cosa è possibile fare oggi per evitare o frenare la scomparsa di un patrimonio così prezioso? Sicuramente recuperare, propagare e conservare in vigneti specifici la moltitudine di vitigni ormai rari, se non rarissimi, destinati quanto prima a scomparire, salvaguardando così almeno quella parte di preziosa diversità genetica ancora esistente.
Ma oltre alla conservazione, è plausibile pensare alla valorizzazione, cioè all'utilizzo commerciale di almeno alcuni di questi numerosi (quanto ormai sconosciuti) vecchi vitigni?
L'esempio dell'Arneis e del Sagrantino, fino a vent'anni fa dimenticati e oggi proiettati con successo sui mercati internazionali, fanno eloquentemente ben sperare.
E perché non citare il Timorasso in Piemonte, il Pignolo in Friuli, il Verdiso in Veneto, il Pecorino nelle Marche, il Pignoletto in Emilia Romagna ed altri ancora, che cominciano a suscitare a livello nazionale apprezzamento, entusiasmo o curiosità? O ancora vitigni da pochissimo "riscoperti" e riproposti, come in Piemonte la Nascetta, in Trentino il Casetta, in Emilia il Lambrusco Oliva, ecc.
Anche se è difficile ipotizzare per molti di questi vitigni un ampio successo commerciale ed una vasta diffusione (sono e rimarranno per lo più prodotti di nicchia), li sentiamo vicini perché intimamente legati al nostro territorio ed alla nostra cultura.
Al cuore non parlano straniero, come le cultivar internazionali, pure buone o eccellenti in molte aree viticole. I "vecchi" vitigni, da tempo coltivati da noi, parlano la nostra lingua, anzi, parlano dialetto: dal Pulceinculo (per via dell'ombelico ben evidente alla base dell'acino), all'Avarenc (Avarengo) perché avaro d'uva, dall'Ucelut al Caria l'asu (Carica l'asino), dall'Ammaccaferro (per via della buccia particolarmente resistente) al Pairolé (nero come il fumo del fondo di un paiolo)...
Un modo, insomma, per bere il territorio, gustarne e capirne diversità e tradizioni.