L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

Nuove norme per la classificazione dei vitigni

Tra i numerosissimi lacci e laccioli legislativi che vincolano il settore vitivinicolo europeo con l’intento di tutelare la qualità delle produzioni, le norme che riguardano l’uso dei vitigni, e in particolare di quelli da vino - già com’è noto piuttosto complesse -, sono state oggetto di revisione nell’ambito dell’ultima OCM. Con questo provvedimento è stata trasferita ai singoli Stati la responsabilità di disciplinare la classificazione delle varietà di vite, responsabilità che lo Stato Italiano, con l’accordo Stato – Regioni del luglio 2002, ha trasferito interamente alle Regioni e Province Autonome, mantenendo l’amministrazione centrale soltanto la funzione di recepire gli atti legislativi regionali.
I punti salienti di quest’accordo e le norme che le singole regioni si sono date nell’arco dell’ultimo anno sono state oggetto di una chiara ed apprezzata relazione tenuta nell’autunno scorso da Mario Pecile del MIPAF (Istituto Sperimentale per la Viticoltura – Servizio Controllo Vivai). Vorrei qui riprendere i principali punti illustrati dal dott. Pecile, chiedendo perdono ai lettori per il tema alquanto tecnico (in altre parole noioso) di questo scritto. Nutro tuttavia la speranza che possa destare qualche interesse per chi deve compiere scelte varietali, magari confrontandosi con colleghi d’altri ambienti o Paesi viticoli.
Con il nuovo accordo spariscono le categorie delle cultivar da vino “raccomandate” e “autorizzate”, ma si hanno cultivar “idonee” e “in osservazione”, che vengono classificate non più per provincia, ma a seconda dei casi per Regione, Provincia o Bacino viticolo (ad esempio una o più DOC/DOCG).
A fine novembre 2003 erano 11 le regioni o province autonome che avevano emanato disposizioni relative all’accordo: Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, provincia di Trento, Veneto, Friuli V.G., Emilia R., Toscana, Umbria, Puglia, Sicilia. Ancora 9, dunque, quelle che ancora dovevano darsi regolamentazioni al riguardo.
La maggior parte delle 11 regioni ha optato per consentire la coltura dei vitigni classificati sull’intero territorio regionale, ad eccezione del Friuli V.G. per alcuni vitigni e del Veneto, che hanno mantenuto una classificazione su base provinciale, o ancora dello stesso Friuli V.G. in alcuni casi e della Puglia, che hanno scelto come unità territoriale i Bacini viticoli.
Tra le diverse regioni vi sono anche differenze sul modo d’indicare le categorie dei vitigni (gli “idonei” sono talvolta suddivisi in “consigliati” e “ammessi”) e sul modo di intendere le deroghe, ad esempio, per le cultivar oggetto di sperimentazione, che in alcune regioni si protraggono anche a sperimentazione completata o valgono quando la classificazione riguarda un’unità territoriale confinante.
Insomma, una devolution all’italiana che, se da un lato favorisce la promozione di politiche regionali ad hoc, dall’altro non si tutela sufficientemente dal rischio di perdere un coordinamento nazionale, tanto importante in una materia complessa come quella delle cultivar da vino, non solo molto numerose in Italia e di complicata identificazione, ma anche patrimonio strategico per lo sviluppo della nostra enologia. Va dunque mantenuto, a mio parere, e anzi potenziato, reso più efficace, il ruolo del Ministero, non solo per iscrivere nuovi vitigni nel Catalogo nazionale attraverso il Comitato per la Classificazione delle Varietà di Vite, ma anche per recepire, coordinandole, le istanze regionali.
Per amministratori, tecnici ed operatori del mondo vitivinicolo sarebbe poi fondamentale poter accedere on line ad un elenco sempre aggiornato delle cultivar classificate in Italia, corredato da essenziali descrittori (magari anche genetici) ed immagini.
Infine, e mi ricollego ai “lacci e laccioli” dell’inizio, siamo proprio sicuri che la qualità vada tutelata mediante leggi così rigide riguardo ai vitigni, le quali ci rendono assai meno reattivi ai cambiamenti dei nostri colleghi, pardon, concorrenti d’oltreoceano?