EDITORIALE
di Giusi Mainardi

Il vino di Tutankhamen
e la spettrometria di massa

Editoriale faraonico… per augurare una splendida estate ai lettori di OICCE Times. Lo dedichiamo alla recente soluzione di un dubbio relativo ad una antichissima bevanda in uso nell’Egitto dei faraoni.
Uno degli aspetti più affascinanti di una cultura sociale dinamica è quello di vivere pienamente un presente mai richiuso su se stesso.
Nel caso di cui stiamo parlando, è semplicemente magnifico che metodi scientifici così innovativi ed attuali come la cromatografia liquida e la spettrometria di massa ci portino a scoprire le caratteristiche di una delle più antiche e prestigiose bevande egiziane: lo shedeh.
Questo termine appare intorno al 1300 avanti Cristo ed è il nome di una bevanda donata dal dio Ra ai suoi figli. Il suo importante ruolo nell’Egitto antico è testimoniato da diverse significative attestazioni scritte. Tali documenti non ci rivelano tuttavia la materia prima con cui si produceva questa bevanda pregiata, contenuta in vasi preziosi, offerta nei templi, apprezzata nella buona società dei vivi, ed anche presente nei ricchi corredi che accompagnavano nell’aldilà i defunti importanti.
Nel 1922, Howard Carter scopre la tomba del faraone Tutankhamen. Fra i tesori e gli oggetti preziosi c’è una serie di anfore. Una di queste porta la scritta “Shedeh di ottima qualità della Casa di Aton del Fiume Occidentale. Capo enologo Rer”. Questa è una delle pochissime anfore di shedeh che ci sono rimaste, ma che cosa fosse realmente questa bevanda da faraoni, fino ad ora non era possibile capirlo. Nonostante le molte informazioni che ci sono rimaste sui diversi aspetti della vita quotidiana nell’antico Egitto, solo in due brevissimi testi si parla del metodo di preparazione dello shedeh, dicendo che si deve scaldare e filtrare. Nemmeno in questi frammenti ci sono però indicazioni sulla materia prima utilizzata. Gli archeologi ipotizzavano che fosse una specie di birra, oppure un vino di datteri, o un fermentato di melograni. Nessun dato poteva oggettivamente chiarirne l’esatta composizione.
Oggi, quattro ricercatrici dell’Università di Barcellona hanno gettato un ponte fra la più avanzata tecnica analitica e la più antica tradizione enologica.
Con il permesso del Supremo Consiglio Egiziano delle Antichità e del Museo Egizio del Cairo, Rosa M. Lamuela-Raventós e le sue collaboratrici hanno potuto prelevare un piccolo campione del residuo presente sul fondo dell’anfora trovata nel corredo funebre di Tutankhamon. Dunque, dopo 3300 anni dalla data della sua produzione, due milligrammi di shedeh sono stati estratti, separati e analizzati con il più sensibile metodo di spettrometria di massa che permette di elucidare la struttura molecolare dei composti e di confermarla confrontandola con standard specifici e ben noti.
I risultati ottenuti sono stati conclusivi: nel campione era presente acido tartarico. Altro risultato ancora più interessante è che fra le sostanze determinate è stato riconosciuto un derivato della malvidina. Tutto ciò dimostra che lo shedeh era un prodotto ottenuto dall’uva ed in particolare da uva a bacca rossa. Così il prezioso dono del dio Ra, l’ambìto, e per noi fino a ieri misterioso shedeh, è un grande vino rosso prodotto da mosto cotto, amato in una delle più grandi civiltà della nostra storia.