EDITORIALE
di Giusi Mainardi

Un assurda dicotomia

Due punti di vista diversi si affrontano nel mondo dell’enologia. Si tratta di due posizioni contrastanti, due visioni del mondo che negli ultimi anni hanno diviso radicalmente il mondo della vite e del vino.
divisione sembra insanabile: le due squadre si affrontano come in una partita di rugby, si contendono il campo e si lanciano sfide. I giocatori si comportano come cane e gatto, accusandosi reciprocamente di affossare il futuro della viticoltura e dell’enologia nazionale.
Ma quali sono queste posizioni e qual è la loro origine? Si potrà mai conciliarle?
Da un lato, forte del grande successo ottenuto sul mercato internazionale, c’è ad esempio la posizione rappresentata in modo perfetto dal mondo della vite e del vino dell’Australia. Si tratta di una visione dell’enologia che vede nel processo di trasformazione e affinamento il punto cardine della produzione del vino. Il luogo dove si creano il vino e il suo mito è la cantina. Per i partigiani estremi di questa visione del mondo l’uva r a p p r e s e n t a quasi un mero accidente, è solo una semplice materia prima necessaria per la produzione del vino. Il vero artefice del miracolo della vinificazione è solo l’enologo (I beg your pardon, non semplicemente l’enologo bensì: the Winemaker!).
Dall’altro lato, si ergono coloro che vedono nel vigneto l’unica origine e legittimazione della qualità del vino. Sono quelli che dichiarano che “la qualità si fa esclusivamente nel vigneto e la responsabilità del tecnico è solo quella di non rovinare il lavoro dell’agronomo”. Sono i teorici del non-intervento tecnico.
In questo campo, con clarine squillanti e lance in resta contro le orde dei nuovi barbari, sta la falange dei paladini del mito della naturalità, dell’aberrazione delle innovazioni della tecnica enologica e dei suoi “artifici”, dell’assoluto predominio del terroir, del cru, del microclima. Non solo alcune zone della vecchia Europa rappresentano in modo ideale questa visione della viticoltura come fonte unica dell’eccellenza: anche la Nuova Zelanda, ad esempio, dichiara ora di voler seguire questa strada differenziando, microzonando e denominando.
È forse il caso di sedersi un attimo, defilati dal campo di battaglia, sotto un albero, con un bicchiere di vino in mano, e cercare di capire quando è nata questa assurda dicotomia.
Facendo un passo indietro possiamo trovarne le origini a fine 1800 quando si teorizzava la separazione netta tra viticoltura ed enologia, quando si proponeva di creare centri di studio differenziati per la vite e per il vino, quando insomma si proponeva di trattare come due attività fondamentalmente distinte la produzione dell’uva e la sua trasformazione in vino.
Ma facendo un passo ancora più indietro possiamo trovare questi stessi segnali già nei Georgici latini: schierato con i winemakers ci sembra di poter contare Virgilio, che si disinteressa dei nomi delle varietà e dichiara che il vino è opera della cultura, mentre contrapposto a lui ci sembra stia Plinio, con il suo interesse per le origini, le varietà, gli aspetti salutistici del vino, le tradizioni e la storia dell’enologia.
Facendo un ulteriore e ancor più lungo passo indietro troviamo già nelle antichissime tombe egizie i segni di questa dicotomia: nelle iscrizioni delle anfore, a fianco delle definizioni di vini collegate alla tecnica di vinificazione, troviamo indicate le zone geografiche di origine. Sembra allora che questa doppia visione, con uno sguardo all’origine geografica delle uve e un altro alla tecnica di vinificazione in realtà abbia accompagnato la storia della civiltà della vite e del vino fino dalle sue origini.
Si può allora pensare che le esagerazioni alimentate da posizioni estreme siano solo la rappresentazione esasperata di una realtà di fondo: cioé del fatto che è da sempre esistita una doppia strada per raggiungere il mercato. Da sempre ci sono stati vini che hanno privilegiato un accurato apporto tecnologico, a fianco di vini varietali fortemente collegati al territorio di origine, fosse questo un’oasi egiziana, un’isola greca o un vigneto latino.
Tecnica, varietà e territorio possono, anzi devono essere uniti per l’espressione della tipicità e della migliore identità di un vino.
Se volessimo dimostrare di aver imparato la lezione della storia, dovremmo piuttosto cercare una strada che permetta di far convivere Viticoltura ed Enologia senza foschi e acrimoniosi conflitti, considerandole non come scienze diverse ed in contrasto, ma come due riflessi della stessa pietra preziosa.