L'ANGOLO DELLA VIGNA
di Anna Schneider

 

Vitigno o territorio?

Annoso dualismo quello della scelta del vitigno o del territorio per la promozione, la tutela, la presentazione di un vino sul mercato. Le due visioni, tradotte in azioni concrete, hanno determinato impostazioni molto diverse nell’ambito del marketing delle singole imprese, di regioni, di intere nazioni.
In Paesi orientati a difendere una tradizione vitivinicola prestigiosa, come la Francia, è stato sempre chiaro fin dall’inizio che il territorio fosse l’elemento cruciale della promozione e della tutela: dalla regione più ampia, al villaggio, al singolo cru. Il messaggio promozionale era in tal caso meno immediato (soprattutto quando si trattava di piccoli territori senza né arte né parte), più complicato, quasi per iniziati, ma aveva il pregio di puntare su di un bene assolutamente irripetibile (il terroir), che per questa via poteva a sua volta esser promosso con il vino.
Filosofia del tutto opposta è stata quella dei Paesi di nuova viticoltura: si è partiti addirittura dalla tipologia di vino (Port, Sherry, Claret) per giungere al vitigno, che già pareva un messaggio raffinato. Del resto quelle viticolture si basavano (e ancora in gran parte si basano) su pochi vitigni che tutti conoscono, mentre i territori impiantati a vite, tranne qualche eccezione, non avevano né storia né tradizione. Per la verità le cose stanno cambiando anche lì rapidamente e la classificazione nonché la tutela dei singoli territori si sta affermando fortemente, ma il vitigno rimane sempre fondamentale, tanto che accanto ai vitigni internazionali, quelli che hanno tutti, si sta puntando su piccole bandiere locali di unicità, come lo Zinfandel in California, il Malbec in Argentina, il Pinotage in Sud Africa.
Come si posiziona l’Italia sotto questo profilo? Il sistema da noi è stato per lo più misto: siamo i maestri di “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Dolcetto di Dogliani e Barolo, Vernaccia di S. Gimignano e Chianti, Franciacorta e Primitivo di Manduria. Una bella confusione. Però, a vero dire, la “filosofia” del territorio col tempo ha giustamente preso il sopravvento. Perché i vitigni viaggiano, e un giorno son qua e un giorno potrebbero esser là, qui si chiamano in un modo e là, magari senza che lo sappiamo, hanno un altro nome. Mentre il territorio, con i suoi paesaggi, le sue opere d’arte, la sua gente, sta sempre lì. Magari si imbruttisce, in certi casi si fa più bello e più organizzato, ma di certo è sempre lì. Non tradisce, come ha fatto per esempio quel Tocai: come gli è venuto in mente di prendersi un nome fonte di così tanti guai?
Però noi italiani ai nostri vitigni non vogliamo rinunciare (anche se abbiamo cominciato a rassegnarci, per così dire, alla supremazia del territorio) e così, in certi casi, ce li teniamo ben stretti: giù le mani dal Sagrantino, il Prugnolo è solo toscano, ma come vi permettete di fare Nebbiolo fuori dall’Italia? I nostri autoctoni, come noi chiamiamo i nostri vitigni tradizionali che magari autoctoni non sono per niente, sono un patrimonio nazionale, una garanzia di qualità e di unicità, li vogliamo tutelare e proteggere. Però abbiamo stabilito che bastano 50 anni di coltura in un determinato territorio per definire un vitigno “autoctono” di quel territorio, col che molti vitigni sono autoctoni quasi dovunque e quasi dovunque, pertanto, tutelabili. E per di più la nuova OCM ci scombina le carte, ammettendo il nome del vitigno in etichetta per i vini da tavola, i più comuni, i più anonimi (quelli, appunto, che vorremmo lasciare anonimi per il vitigno). E in effetti, non siamo in grado di garantire il vitigno quando è stabilito per disciplinare nelle d.o., figuriamoci se il disciplinare non c’è.
Forse, dovremmo cominciare a garantire che il vitigno previsto sia effettivamente nella bottiglia, e provenga effettivamente dal territorio previsto: è un buon punto di partenza per una buona promozione.