EDITORIALE
di Giusi Mainardi

Genuinità contro Artificio?

Viene talvolta da sorridere quando, vedendo eserciti che partono gambe in spalla verso battaglie che credono di combattere come i primi Paladini, ci si accorge invece di quanto in realtà si ripetano secolari diatribe sul vino.
È interessante riscontrare come il vino presenti aspetti che rientrano nelle “grandi questioni” con le quali per secoli diverse generazioni continuano a confrontarsi.
Nel febbraio del 1875, 135 anni fa, si tenne a Torino il primo congresso enologico italiano. Parlando di quale dovesse essere il futuro della nostra enologia si misero a confronto due anime dell’enologia italiana, due tendenze contrapposte. Il principale oggetto del contendere furono le pratiche enologiche.
Da un lato stava la tendenza che desiderava vini di tipo costante, che voleva svincolarsi dai rischi di produrre vini di qualità diversa ogni annata, qualità determinate dalle differenze di maturazione delle uve, e che quindi chiedeva, analogamente a quanto era usuale fuori dall’Italia, la possibilità di correggere i mosti in zucchero e acidità, in modo da ottenere tutti gli anni un vino dalle caratteristiche costanti.
Dall’altro lato si schierava l’altra anima dell’enologia italiana che considerava l’aggiunta di zucchero, la disacidificazione o l’utilizzo delle altre pratiche enologiche applicate in altre nazioni come delle tecniche da non usare e da non divulgare.
La necessità di presentarsi sul mercato con vini di tipo costante, in grado di essere commercializzati all’estero, portò il congresso di Torino ad approvare la proposta di “correggere il mosto nelle annate non favorevoli, e riportarlo a titolo normale.”
La stessa opposizione tra due tendenze si nota, sempre a fine 1800, nella discussione sul taglio dei vini. Per ottenere i tanto desiderati vini di qualità costante si doveva procedere a degli assemblaggi di prodotti diversi. Questo non venne contestato da nessuno. La discussione nacque invece sul fatto che si dovessero mescolare insieme le uve (privilegiando in questo modo la viticoltura di territorio e il prodotto che nasceva nel vigneto) oppure i vini (privilegiando quindi l’aspetto tecnico e commerciale).
Si sostenne che a chi aveva a cuore l’onore della propria cantina, non doveva mai venire in mente la mescolanza dei vini. Contemporaneamente si affermò che tutte le case vinicole più importanti e più vecchie dovevano la loro gloria alla difficile arte di eseguire sapienti mescolanze di vini per ottenere prodotti di qualità costante, corrispondenti ai gusti del mercato. Bene, 135 anni dopo lo storico primo congresso di enologia, si continua a discutere di pratiche enologiche, del rapporto di concorrenza che oggi intercorre tra i vini italiani e quelli dei paesi del nuovo mondo, anche in rapporto alle diverse possibilità dell’impiego di certe pratiche enologiche, del “conflitto” tra i concetti che ispirano le DOC e le marche.
Come allora, uno degli argomenti centrali è il ruolo che avranno le pratiche enologiche nel futuro dell’enologia europea.
Come allora, si rivelano due anime dell’enologia, due visioni opposte sull’utilizzo delle pratiche enologiche. “Genuinità” contro “Artificio” sembrano oggi riassumere le due posizioni. Ma è davvero così?
Per rispondere meno emotivamente e più consapevolmente a questo interrogativo, vi invitiamo a leggere l’articolo che pubblichiamo in questo e nel prossimo numero di OICCE Times, dove si presentano le riflessioni puntuali ed illuminanti di un enologo di pregio come Lanfranco Paronetto.
Un prodotto di qualità è frutto di una complessa serie di fattori che, partendo dalla qualità dell’uva, portano alla qualità del vino. Fra questi fattori perché non avvalersi dell’utilizzo di corrette ed evolute pratiche enologiche? L’innovazione è in conflitto con il territorio, la tradizione, la salubrità?
Nel giugno 2010, esperti provenienti da decine di nazioni vitivinicole, saranno chiamati a discuterne al congresso mondiale dell’OIV, in Georgia, nel Paese che è stato culla della viticoltura.